Leader si nasce o si diventa: leadership e intelligenza emotiva / 3^ parte
Ci si chiede qual è la differenza tra un leader e un capo: il leader guida, il capo dirige. ( T. Roosevelt)
Arriviamo alla tappa conclusiva del nostro cammino alla scoperta della leadership e delle capacità dell’intelligenza emotiva che la contraddistinguono, che prosegue dall’articolo “Caratteristiche e stili del leader”.
Come abbiamo visto nelle prima parte le doti personali e l’indole hanno una grande valenza, ma a questo punto la domanda che sorge spontanea è: chiunque può diventare un leader efficace? Sono sufficienti volontà e motivazione per migliorare le proprie abilità?
Le competenze dell’intelligenza emotiva possono essere apprese o rafforzate e quando si tratta di costruire abilità di leadership, destinate a durare nel tempo, la motivazione e l’approccio positivo nei confronti dell’apprendimento hanno una immensa importanza.
Le persone imparano solo ciò che desiderano imparare. Se l’apprendimento viene imposto, ben presto verrà dimenticato. Occorre prevenire “l’effetto luna di miele“. Spesso infatti i manager che tornano da un training sulla leadership, sono entusiasti e decisi a migliorare. Ma una volta tornati in ufficio, nella quotidianità ricca di impegni, richieste, emergenze, tutto ciò che si è imparato svanisce, soppiantato dalle vecchie reazioni istintive; riprenderanno così a comportarsi come sempre hanno fatto.
Un manager non diventerà mai un leader se non spinto dalla sua forza d’animo e da un vero interesse.
Come si spiega tutto ciò?
La ricerca ha dimostrato che le abilità fondate sulla componente limbica vengono apprese al meglio facendo leva sulla motivazione, l’esercizio intensivo e il feedback.
Purtroppo però la maggior parte dei programmi di formazione (soprattutto quelli intensivi che durano un week-end) per lo sviluppo di capacità come l’intelligenza emotiva, mirano alla neocorteccia anziché al cervello limbico.
La neorcorteccia presiede alle capacità tecniche ed analitiche, ed è in grado di lavorare al meglio (ed in tempi straordinariamente rapidi) quando si tratta di leggere, ad esempio, un libro per imparare ad usare un software per PC.
Ma il sistema limbico, deputato allo svolgimento di attività emozionali (e quindi legate all’intelligenza emotiva) impara in modo molto più lento, soprattutto quando occorre modificare abitudini profondamente radicate. Occorrono in tal caso modelli di apprendimento differenti da quelli validi per il cervello razionale, servono molta pratica ed esercizio costante.
Quando si tratta di sviluppare la leadership, è necessario adottare un approccio che apporti cambiamenti neurali nella zona più “primordiale” del nostro cervello. Gli scienziati sono giunti alla conclusione che “quando è una connessione limbica ad aver istituito un modello neurale, occorre una connessione limbica per modificarlo”.
Il punto cruciale nello sviluppo delle capacità di leadership, è l’apprendimento autodiretto: la volontà di potenziare e rafforzare un aspetto del proprio sé ideale e/o reale.
Per fare questo è necessario disporre di un’immagine nitida del proprio sé ideale e di un ritratto fedele del proprio io reale, ciò che si è al momento presente.
Questo tipo di apprendimento è più efficace (in quanto ha alla base una notevole motivazione al cambiamento), garantisce risultati più duraturi e comporta cinque scoperte (che andremo a vedere tra poco). Ciascuna andrà trasformata in uno strumento per realizzare i cambiamenti necessari alla creazione di un leader dotato di intelligenza emotiva sulla base delle diciotto competenze di cui abbiamo parlato nella seconda parte.
1. La prima scoperta: il sé ideale e l’inizio del cambiamento
Quando si entra in contatto con i propri sogni, si libera energia, entusiasmo, passione per la vita. Scoprire il proprio sé ideale, cioè la persona che si vorrebbe essere, ciò che si vorrebbe ottenere nella vita e nel lavoro, permette di avere la forza di migliorare e crescere.
Occorre una profonda introspezione e in seguito aderire alla proiezione del proprio sé ideale con tenacia e fiducia, affinché si possano rovesciare anni di abitudini sbagliate o improduttive, che si sono sedimentate nei circuiti neurali. Ciò che può spronare è l’attivazione della corteccia prefrontale sinistra che fornisce la motivazione, facendo immaginare la sensazione di grande benessere che si proverà nel realizzare il proprio ideale.
Bisogna però stare attenti a differenziare il sé ideale da quello normativo, che è quello “trasferito” dai genitori, il coniuge, i capi, gli insegnanti. Inoltre occorre superare l’effetto “anestetico” di responsabilità quali il mutuo della casa o il mantenimento dei figli, insieme al desiderio di condurre un certo stile di vita: tutto questo può spingere le persone a percorrere una determinata strada, indipendentemente dal fatto che essa sia in linea o meno con i propri sogni.
Se non si seguono i propri sogni (cioè si ha discontinuità tra sé ideale e sé imposto dall’esterno), non si avrà mai la forza costante e duratura per cambiare… e si arriverà all’apatia, o alla ribellione, a causa della mancanza di stimoli che ci emozionano.
2. La seconda scoperta: il sé reale e la sindrome della rana bollita
Prendendo come spunto la “sindrome della rana bollita”, possiamo pensare a certi leader che si adeguano alla routine o lasciano che le piccole consuetudini si consolidino diventando abitudini radicate, permettendo all’inerzia di fare il suo ingresso in scena.
Con questa premessa si introduce il concetto di sé reale: se ci rendiamo conto che il lavoro, le relazioni e la vita di tutti i giorni nel suo insieme non ci infondono energia e speranza nel futuro, è segno che abbiamo smarrito il senso del nostro sé reale.
Allora è giunto il momento di guardarci dentro e capire chi siamo diventati… e quando lo facciamo, almeno all’inizio è come se ci stessimo guardando in uno specchio appannato. Tale mancanza di chiarezza è un meccanismo di difesa attuato dal nostro ego, che intende proteggerci dalle emozioni, consentendoci di affrontare più facilmente la vita.
Ma queste forme di autoinganno (come scrisse il drammaturgo Henrik Ibsen, “menzogne vitali”), sono una trappola dalla quale i leader più dotati riescono a sfuggire grazie al feedback di quanti li circondano. Essi, oltre ad essere dotati di estrema consapevolezza di sé, si “nutrono” di feedback positivi, ma anche negativi, cercano di sconfiggere la sindrome della reticenza e sono aperti alle critiche.
Grazie a questo atteggiamento, scatta la disponibilità al cambiamento: si conoscono i propri pregi (e si cerca di preservarli ed affinarli), così come i difetti (che al contrario vanno cambiati e da punti di debolezza possono anche divenire punti di forza).
Pertanto per diventare dei buoni leader occorre scoprire come agiamo, qual è l’impressione che suscitiamo negli altri e quali sono le nostre convinzioni più profonde.
3. La terza scoperta: percorso di apprendimento
Affinché il cambiamento abbia successo, occorre predisporre un piano di azione che quotidianamente faccia avvicinare il nostro sé reale, al nostro sé ideale.
Non deve essere un “piano di miglioramento della prestazione”, come avviene nella maggior parte dei training per leader, che mettono nella condizione di dover dimostrare qualcosa provocando reazioni difensive. Deve rappresentare il metodo per focalizzare chi vogliamo essere in futuro, in base ai nostri obiettivi personali e in base ai propri talenti, non sulla base di modelli pre-confezionati ed imposti dalla società che ci circonda.
Il piano deve far leva sui punti di forza, sviluppandoli e facendoli arrivare al livello di massa critica, il livello cioè in cui anche un modesto miglioramento o incremento, fa decollare la prestazione a livelli di eccellenza.
Gli obiettivi di miglioramento si devono adattare al nostro stile di vita e di lavoro, devono essere specifici e ragionevoli perché sono quelli che hanno la maggiore possibilità di essere conseguiti.
Infine, per imparare al meglio, si devono impiegare modelli di apprendimento adatti alla propria persona (esperienza concreta, riflessione, costruzione di modelli teorici, apprendimento per prova ed errore).
4. La quarta scoperta: sperimentare per cambiare
Questa scoperta si realizza nell’applicazione pratica delle nuove abilità di leadership, al fine di rafforzarle. Occorrono generalmente mesi per apprendere in maniera ottima una competenza di intelligenza emotiva, perché come già detto, coinvolge i gangli basali e i vari collegamenti ai centri emotivi.
Per padroneggiare nuove abitudini bisogna far pratica ed esercizio. Maggiore è la frequenza con la quale una particolare sequenza comportamentale viene ripetuta, maggiore sarà il rafforzamento dei circuiti neurali coinvolti. L’apprendimento di nuove abitudini rinforza i percorsi neurali e può anche indurre la neurogenesi, ossia la formazione di nuovi neuroni.
Una delle prima cose che si deve fare è adottare una strategia che ci faccia superare le abitudini di leadership dettate dall’impulso, per avere un maggiore controllo della propria emotività che aumenta la fatica all’apprendimento e potrebbe esser demotivante. Una volta raggiunta la totale padronanza ed autocontrollo, le energie mentali e l’attenzione sono libere di concentrarsi sulla pratica di nuove modalità di leadership.
Per poter sviluppare le proprie capacità, si può seguire la strada dell’apprendimento silenzioso, non è necessario pertanto un corso o un seminario come se dovessimo imparare una lingua straniera.
Poiché nella vita quotidiana – e in svariati contesti – impariamo (in maniera implicita, sin da quando siamo piccoli) e mettiamo in gioco le competenze necessarie alla leadership, possiamo affinarle in maniera consapevole (ed esplicita), con chiunque ci frequentiamo, non solo i colleghi di lavoro.
Il successo nella leadership dipende dalla capacità di formarsi una rappresentazione mentale dello stato ideale che si vuole raggiungere e mantenere. Pertanto, sperimentare nuovi comportamenti e cogliere le possibilità di metterli in pratica dentro e fuori dal contesto professionale, come pure ricorrere all’esercizio mentale, sono tutti modi validi per attivare le connessioni neurali alla base dell’effettivo cambiamento.
5. La quinta scoperta: il potere delle relazioni
Quest’ultima scoperta si può collocare in qualsiasi momento del processo.
Abbiamo bisogno degli altri per identificare il nostro sé ideale o scoprire quale è la nostra vera natura, per identificare le nostre doti e le nostra lacune, per sviluppare un piano d’azione futuro che ci permetta di sperimentare e applicare quanto appreso.
Questo perché gli altri ci aiutano a scoprire ciò che non vediamo, confermano i nostri progressi, mettono alla prova le nostre percezioni e ci fanno capire come stiamo procedendo. Essi forniscono l’ambiente nel quale sperimentare e applicare quanto abbiamo imparato.
Nonostante il modello sia chiamato “apprendimento autodiretto”, non può essere realizzato da soli. Senza il coinvolgimento degli altri, non possono verificarsi cambiamenti duraturi.
Conclusione: controllare le emozioni di fronte ai cambiamenti
Come abbiamo visto, un leader che intende migliorare il proprio status deve dapprima scoprire il proprio sé ideale, per poi sondare il campo del sé reale.
A livello individuale la motivazione al cambiamento è massima quando si entra in contatto con i propri sogni e con la visione ideale della propria vita. L’energia e l’impegno necessari a modificare il comportamento scaturiscono proprio da tale visione del futuro.
Nel caso di un gruppo invece la visione ideale è spesso un concetto molto più remoto e la motivazione che se ne trae non è sufficiente a stimolare il cambiamento.
Un gruppo potrà intraprendere il cambiamento solo quando avrà compreso la realtà dei propri meccanismi interni e soprattutto quando i suoi singoli membri saranno consapevoli delle situazioni dissonanti o di disagio in cui stanno operando. Solo quando il team saprà far fronte alla propria realtà emozionale, si sentirà davvero spinto verso il cambiamento.
Ovviamente il leader non deve ignorare realtà fondamentali quali le norme implicite del team e le emozioni collettive della “tribù”, dando per scontato che la forza della propria leadership sia sufficiente a guidare il comportamento altrui e indurre un cambiamento. In particolare le norme sono estremamente potenti, rappresentano l’apprendimento implicito a livello di gruppo. Sono le tacite regole che assimiliamo assorbendo le interazioni quotidiane e che poi adottiamo automaticamente armonizzandole alla nostra routine.
Per scoprire la realtà dell’organizzazione si può utilizzare un potente strumento, chiamato indagine dinamica, che svela lo stato emozionale: consente di capire che cosa stia davvero a cuore ai singoli, che cosa sia utile ai fini del successo individuale, del gruppo e dell’organizzazione e cosa invece ostacoli quel successo.
L’indagine dinamica comporta conversazioni mirate e domande aperte che hanno lo scopo di capire i sentimenti delle persone. E’ un approccio che alcuni leader potrebbero ritenere sconcertante, perché apparentemente lontano dai problemi aziendali. D’altra parte è solo dando voce ai sentimenti che gli individui cominciano a scoprire le radici dei problemi legati alla cultura aziendale e le vere fonti di ispirazione nell’ambiente che li circonda.
Alla luce di queste affermazioni, si capisce che l’autentico cambiamento avviene attraverso un processo sfaccettato che tocca i tre livelli fondamentali dell’organizzazione: i singoli individui, i gruppi in cui essi operano e la cultura dell’organizzazione.
I leader devono creare risonanza e contribuire alla motivazione costante dei propri collaboratori, affinché sentano di poter raggiungere gli obiettivi di miglioramento prefissati e si impegnino attivamente.
Le possibilità che un’azienda si riveli sufficientemente agile per sopravvivere a un futuro pieno di sorprese dipende in larga misura dalla capacità dei suoi leader di controllare le proprie emozioni di fronte a drastici cambiamenti. Uno stato ansioso provocato da un momento di difficoltà riduce la capacità del cervello di capire le situazioni e reagire correttamente ad esse.
Quando la capacità decisionale dei leader è paralizzata dalla paura, l’intera organizzazione può precipitare.
I leader dotati di intelligenza emotiva sanno come controllare le emozioni controproducenti in modo da riuscire a mantenere la concentrazione e la chiarezza di pensiero anche sotto pressione.
Nei momenti di difficoltà rimangono flessibili e si adattano alle circostanze riuscendo a scorgere la strada che conduce a un futuro migliore, sapendo comunicare la loro visione – in modo risonante – a tutto il gruppo di cui sono a capo.
Si conclude questo viaggio insieme, grazie per essere arrivato fin qui e se ti è piaciuto, condividi questo articolo con i tuoi colleghi, iscriviti alla mia newsletter per rimanere aggiornato sulle novità del blog e sui miei eventi e corsi di formazione.
Ad maiora.
Questo è il post conclusivo di una serie di tre, ecco l’indice completo:
• Come essere un leader efficace e un buon manager / 1^ Parte
• Caratteristiche e stili del leader / 2 ^ Parte
• Leader si nasce o si diventa? / 3^ Parte
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